Covid-19 in Portogallo

Fabrizio Cossutta

La gestione dei casi da parte delle cure primarie si basa sulla sinergia tra medici di famiglia e medici di salute pubblica, quest’ultimi responsabili per il contact tracing e per la sorveglianza attiva dei casi entrati in esposizione con casi positivi.

 

Numero abitanti: 10,28 milioni
Casi accertati: 42.782
Casi guariti: 28.097
Casi attivi: 13.098
Decessi: 1587
Di cui operatori sanitari: 1
Totale pazienti ricoverati sui casi ancora attivi: 510
Di cui ricoverati in terapia intensiva: 77

Fonte: Direção Geral da Saúde

Questi sono i dati al 2 luglio 2020.

Nonostante le restrizioni in vigore quest’anno non permettano i consueti festeggiamenti estivi, con vinho verde e sardinhas in ogni angolo e quartiere, il Paese tira un sospiro di sollievo e cerca di ritornare alla sua calma normalità.

Per capire come il Portogallo sia riuscito a uscire a testa alta da questa prima ondata è necessario fare un passo indietro, capire il contesto, ripercorrere i passi e le decisioni politiche intraprese e infine analizzare in dettaglio la risposta del servizio sanitario pubblico.

Il Servizio sanitario portoghese

Con il più basso tasso di posti letto in terapia intensiva d’Europa (4,2 ogni 100.000 abitanti) e con un numero di ventilatori meccanici insufficiente per far fronte alle previsioni (1142 ventilatori per circa 10 milioni e mezzo di abitanti), il Serviço Nacional de Saúde è arrivato stremato ai blocchi di partenza.

Nonostante il dietrofront dell’attuale governo di centro-sinistra del premier António Costa, riuscito al termine dell’ultimo mandato a far approvare una nuova Lei de Bases da Saúde e relegare la salute privata a un ruolo suppletivo e decisamente secondario, stiamo parlando di un sistema dissanguato da politiche neo-liberali dei governi degli ultimi venti anni, portate avanti in nome del libero mercato e della concorrenza pubblico-privata.

I dati dell’OCDE ci dicono che il Portogallo è il paese con il più alto numero di medici pro capite (5,0 ogni 1000 abitanti), ma è necessario tenere in considerazione che solamente 2,8 ogni 1000 lavorano nel pubblico, un valore al di sotto della media OCDE-36 (3,5 ogni 1000 abitanti) e che corrisponde a un deficit di circa 7000 medici.

Pure il numero di infermieri è insufficiente per le necessità del paese (6,7 ogni 1000 abitanti con una media OCDE-29 di 8,8 ogni 1000), una carenza in parte mitigata nel 2013 dall’aumento dell’orario di lavoro settimanale da 35 a 40 ore ma nuovamente evidente dopo il ritorno alle 35 ore settimanali avvenuto nel 2018.

Stiamo parlando, inoltre, di un servizio sanitario strozzato dalla spending-review e dall’austerity dettate dalla troika, che ha portato ad una riduzione del circa 10% della spesa pubblica per la salute pubblica tra il 2010 e il 2015, soprattutto tramite la riduzione del personale, limitando le nuove assunzioni, congelando salari e progressioni di carriera e ricorrendo sempre più spesso all’outsourcing al ribasso.

La coalizione di centro-sinistra (chiamata geringonça in tono dispregiativo) al governo dal 2015 al 2019  ha iniziato un’inversione di rotta, aumentando la spesa sanitaria del 18% rispetto alla precedente legislatura di centro-destra, con un aumento di circa 30% del budget per il personale sanitario.

Nonostante questi numeri incoraggianti, la geringonça non è riuscita a portar a termine la sua promessa più ambiziosa: far sì che ogni cittadino portoghese abbia un medico di famiglia, una meta inizialmente prevista per il 2013 e che resta un miraggio per oltre mezzo milione di portoghesi.

La risposta delle cure primarie

La gestione sanitaria del territorio portoghese è suddivisa in 7 amministrazioni regionali (Administrações Regionais de SaúdeARS), alle quali compete la gestione delle cure primarie, secondarie e terziarie, come pure la gestione degli accordi con le entità diagnostiche e terapeutiche private (ad esempio, centri per analisi cliniche oppure centri di fisioterapia).  Il territorio di ogni ARS è ulteriormente suddiviso in Agrupamentos de Centro de Saúde (ACES), enti pubblici con autonomia amministrativa con la responsabilità di erogare le cure primarie alla popolazione di una determinata area geografica. Ogni ACES è composto da varie unità funzionali, tra cui una unità di salute pubblica (USP), una unità di consulenti multi-professionali (chiamata URAP e composta da psicologi, dentisti, terapisti occupazionali, fisioterapisti e assistenti sociali) e varie unità di medicina generale e familiare. Le unità funzionali (UF) di medicina generale e familiare sono composte da un numero variabile di medici (in media da 5 a 15) e possono essere suddivise in due gruppi, chiamate UCSP (Unidade de Cuidados de Saúde Personalizados) e USF (Unidade de Saúde Familiar). Quest’ultime, di concezione più recente, sono caratterizzate da una maggior autonomia organizzativa e da un rapporto quasi 1 a 1 tra il numero di medici, infermieri e segretari clinici.  Da segnalare che i medici di famiglia – formati all’interno di un corso specialistico di 4 anni – sono dipendenti pubblici.  

La risposta alla pandemia di Covid-19 inizia i primi di febbraio quando in ogni UF vengono riconvertiti alcuni consultori in sale di isolamento, tutte dotate di ossimetro, di telefono e di dispositivi di protezione individuale (DPI). Vengono incentivate le formazioni interne per la riduzione del rischio di contagio (precauzioni base ma anche vestizione e svestizione di DPI per tutti i professionali) e vengono creati circuiti separati per la circolazione e osservazione di casi sospetti e non sospetti.

Un mese dopo, con il decreto ministeriale 2836-A/2020 del 2 marzo, viene ordinato a tutte le ARS di divulgare piani di emergenza, che vengono nei giorni successivi adattati dai vari ACES e che serviranno da spina dorsale per il funzionamento di tutte le UF. Questa prossimità tra ACES e UF permette difatti la modifica dei piani di emergenza, che durante le prime settimane vengono aggiornati quasi quotidianamente in risposta alle nuove esigenze dettate sia dalle direttive del governo ma anche dall’evoluzione dei casi sospetti e accertati di Covid-19 nella propria area geografica.

Per evitare l’uso inopportuno dei servizi di pronto soccorso, fin dall’inizio la Direzione Generale della Salute (DGS) e tutti gli organi di informazione pubblici e privati consigliano alle persone con sintomi sospetti di entrare in contatto con il numero telefonico SNS24, un servizio adibito al triage telefonico e successivo smistamento dei casi in base alla gravità. La risposta è inizialmente positiva ma dopo la conferma dei primi due casi di Covid-19 il servizio non riesce a far fronte all’aumento esponenziale della domanda, oltre metà delle chiamate ricevute il 9 marzo non vengono risposte e il sistema collassa.

Nel frattempo l’autonomia organizzativa delle UF entra in azione e ogni equipe si riorganizza: l’attività assistenziale in presenza è convertita quasi interamente in teleconsulto, viene posticipata tutta l’attività clinica non urgente, viene effettuato uno screening di tutti i pazienti all’ingresso e i casi sospetti vengono isolati, l’anamnesi e i dati anagrafici vengono recuperati al telefono e successivamente l’osservazione è realizzata con DPI completo (maschera FFP2, visiera, cuffia, camice impermeabile e calzari). Ogni caso viene poi discusso telefonicamente e convalidato da medici infettivologi, ma anche in questo caso è un sistema che si satura rapidamente e non riesce a dar risposta ai casi sospetti in aumento.

Nel frattempo le ARS procedono alla conversione di interi reparti ospedalieri in reparti di malattie infettive, vengono aperti alcuni ospedali da campo nei pressi dei maggiori centri di riferimento per i pazienti Covid e vengono stabiliti accordi con laboratori di analisi convenzionati per aumentare la capacità diagnostica (attualmente una capacità pro capite tra le più alte d’Europa), creando le condizioni per garantire il follow up ambulatoriale della maggior parte dei casi.

L’entrata in vigore della normativa 004/2020 sancisce l’inizio della fase di mitigazione, e dal 26 marzo la linea SNS24 (ora potenziata tramite l’assunzione di infermieri e medici in pensione) assume competenze di erogazione di test diagnostici ai cittadini con sintomi sospetti. Il 93% dei casi accertati non necessita di cure ospedaliere e viene accompagnato telefonicamente da infermieri e medici di famiglia e in ogni ACES vengono create aree dedicate a Covid-19 (ADC – simili alle USCA italiane), strutture extra-ospedaliere dove medici e infermieri di famiglia visitano i pazienti, accertati o sospetti, con sintomatologia lieve di tutto l’ACES.

È importante riferire che la gestione dei casi è per area geografica e non per unità funzionale d’iscrizione, e in questo modo gli ACES si organizzano per dar risposta pure alle persone senza medico di famiglia o ai pazienti in situazione irregolare, ai quali viene garantito il diritto all’assistenza sanitaria dal Decreto 3863-B/2020.

La gestione dei casi da parte delle cure primarie si basa sulla sinergia tra medici di famiglia e medici di salute pubblica, quest’ultimi responsabili per il contact tracing e per la sorveglianza attiva dei casi entrati in esposizione con casi positivi. In caso d’insorgenza di sintomi la gestione del caso passa ai medici di famiglia, che possono a loro volta richiedere un’osservazione in ADC oppure richiedere il tampone, a domicilio, in un laboratorio convenzionato o in laboratori drive-through. Inoltre, con l’entrata in vigore del Decreto 4959/2020, da fine aprile pure la gestione dei casi sospetti e positivi delle residenze sanitarie assistenziali viene garantita dai medici di famiglia e di salute pubblica dell’ACES, ovviando in questo modo alla mancanza di personale sanitario qualificato e DPI che ha caratterizzato queste strutture (perlopiù private) nelle prime fasi della pandemia portoghese e tasto dolente in molti altri paesi europei.

Come  previsto, durante i mesi di aprile e maggio i casi continuano ad aumentare, ma questa gestione sul territorio permette agli ospedali di lavorare con relativa tranquillità, come dimostrano i dati dell’analisi realizzata dalla Società Portoghese di Medicina Interna: il tasso d’occupazione dei posti letto per COVID19 è sempre rimasto sotto il 50%, e poco sopra il 30% per quanto riguarda i posti in terapia intensiva.

Per concludere, una nota di merito alla gestione dei DPI da parte delle varie ARS, che sono riuscite a oltrepassare le difficoltà iniziali nel reperimento di dispositivi adeguati e hanno garantito un rifornimento continuo a tutti gli operatori sanitari. Questo ha permesso, da un lato di mantenere relativamente bassi i numeri dei contagi tra gli operatori sanitari (un totale di circa 3500 casi, di cui circa 500 medici e poco più di 1100 infermieri) e dall’altro di ricominciare lentamente l’attività assistenziale presenziale, con le dovute precauzioni e senza porre in rischio il bene più prezioso del servizio sanitario pubblico – il personale sanitario.

Fabrizio Cossutta (fabrizio.cossutta@arslvt.min-saude.pt), Medico di famiglia. Coordinatore della USF Almirante, ACES Lisboa Central, Lisbona. Coordinatore della task-force responsabile per l’accompagnamento dei casi di Covid-19 – ACES Lisboa Central.

Un commento

  1. Complimenti per la organizzazione delle cure primarie, che dimostra che non sono le risorse economiche, pur indispensabili, che fanno la differenza, ma le risorse umane e la loro volontà di lavorare in team.

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