Covid-19 in Spagna. La seconda ondata
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- 26 Ottobre 2020
Javier Segura del Pozo
L’associazione tra precarietà lavorativa e rischio di Covid-19. La maggiore esposizione al coronavirus e il più alto grado di vulnerabilità delle classi popolari ha comportato una maggiore gravità e mortalità dei casi.
Mentre molti paesi europei sono alle prese con il rapido aumento di questa seconda ondata pandemica autunnale, in Spagna abbiamo già raggiunto il plateau di questa ondata iniziata durante il periodo delle vacanze estive, ma con l’incertezza di sapere se siamo già in una fase che prelude a una discesa o – come suggerisce la Figura 1 – in una pausa instabile alla quale può seguire una nuova impennata autunnale come sta accadendo nel resto dell’Europa. (La successiva Tabella 1 mostra i dati delle prime otto nazioni europee per quantità di casi)
Il detto “La Spagna è diversa” sembra essere stato nuovamente confermato anche quest’estate. Ma in questa occasione, a differenza di quanto accaduto nella prima ondata, ci siamo differenziati perfino dai nostri fratelli e sorelle italiane. Durante l’estate, quando la Spagna si è distinta dal resto d’Europa per la precocità di questa seconda ondata, siamo stati ancora una volta indicati e colpevolizzati da alcuni media europei per la nostra “irresponsabile e grande socialità”. Ma questa volta, a quanto pare, non abbiamo condiviso con l’Italia quella “socievolezza latina”, incompatibile con il consigliato “distanziamento sociale”. Che è successo alla popolazione italiana? È diventata più svedese o tedesca durante quest’estate? Ovviamente, come già accaduto a marzo, le ragioni di queste differenze non vanno ricercate in questi stereotipi culturali o in cliché xenofobi, ma nell’analisi di elementi più complessi che rimangono occulti tanto all’interesse dei media come a chi suggerisce interpretazioni volutamente semplicistiche.
Torniamo alla domanda iniziale: qual è stata la causa di questa peculiare seconda ondata estiva in Spagna?
La prima cosa da notare è che questa seconda ondata è iniziata a luglio poco dopo la fine del processo di de-escalation (da maggio a giugno) con il quale siamo usciti gradualmente da un confinamento domestico molto severo durato due mesi (dall’inizio di marzo all’inizio di maggio), e che ha significativamente diminuito la trasmissione comunitaria del coronavirus.
Era prevedibile che finito il periodo di confinamento e con l’aumento della mobilità e dell’attività socio-lavorative si sarebbe andato in contro ad un aumento dei casi e dei focolai, ma la domanda era: potevamo identificarli e controllarli tempestivamente? Per farlo era requisito essenziale essere capaci di rafforzare le nostre ridotte capacità di sanità pubblica e cure primarie. Il nostro rigoroso ed efficace confinamento è stato possibile soltanto grazie agli sforzi risoluti del governo centrale, che ha utilizzato lo stato di emergenza per imporre delle misure che al di là della resistenza di alcuni settori economici e politici, i quali hanno avuto un ruolo importante nel debole controllo della seconda ondata, nella quale è prevalso il richiamo al falso dilemma tra salute ed economia.
Da maggio a fine giugno è stato avviato dal governo centrale un percorso di transizione verso una “nuova normalità” mediante la quale le Comunità autonome (CCAA), ovvero le amministrazioni regionali con responsabilità in materia sanitaria, dovevano soddisfare una serie di criteri che prevedevano partendo della fase 0, una serie di fasi intermedie (1, 2 e 3) fino ad arrivare alla nuova normalità. In Spagna, questa imposizione del governo centrale nei confronti delle CCAA, non è stata facilmente accettata e ha creato forti tensioni tra quei governi regionali di coalizione di destra (e sostenuti dall’estrema destra) e il governo centrale di coalizione di sinistra del presidente Sanchez. Questa situazione di opposizione, non soltanto politica ma anche tecnico-sanitaria al governo centrale si è verificata soprattutto nel caso della Comunità Autonoma di Madrid, ed è stata e continua ad essere utilizzata da parte del Partito Popolare come strumento di forza nel duro confronto con il governo di Sanchez. Lo stato di emergenza, richiesto da un governo senza maggioranza parlamentare, ha richiesto in parlamento la difficile convalida ogni 15 giorni.
A metà giugno, quasi tutte le comunità autonome avevano fatto dei progressi importanti nel processo di de-escalation – sia in termini di riduzione della trasmissione che di rafforzamento delle loro capacità di controllo – passando alla fase 2. Tuttavia, l’estate si stava avvicinando con tutto ciò che questo significa per la società e l’economia spagnola. Non c’era soltanto il desiderio di “scompiglio”, di uscire di casa per godersi lo spazio pubblico e le relazioni sociali, dopo quei lunghi e interminabili due mesi di reclusione, c’era anche una forte pressione per accelerare il processo di de-escalation, per l’impatto che questo poteva avere nell’economia spagnola, fortemente dipendente dal turismo.
Il governo ha rinunciato alla richiesta di una nuova proroga dello stato di emergenza che si è concluso con l’inizio dell’estate il 21 giugno, data nella quale le CCAA hanno riacquistato i pieni poteri di azioni (ed omissione). Quelle che erano ancora nella fase 2, come la Comunità autonoma di Madrid, hanno avuto la libertà di saltare la fase 3 e di passare direttamente alla “nuova normalità”.
Non c’è nessun dubbio sul fatto che mobilità e socialità associate alle vacanze estive abbiano giocato un ruolo importante nella seconda ondata. Ciò è dimostrato perché la curva smette di crescere a metà settembre quando siamo alla fine delle vacanze e di ritorno alla routine lavorativa ed educativa. Tuttavia, si è dato un’enfasi eccessivo all’irresponsabilità individuale dei cittadini durante il loro tempo libero e molto poco agli altri determinanti sociali e strutturali riguardo all’esposizione, vulnerabilità e contagio associati a questo periodo estivo.
A differenza di altri paesi, in Spagna l’occupazione aumenta nel periodo estivo e diminuisce alla fine della stagione turistica. Si tratta di lavori precari e di bassa qualità, che presentano una scarsa presenza dei sindacati a difesa dei diritti dei lavoratori e prevenzione dei rischi professionali. L’associazione tra precarietà e rischio di Covid era già stata individuata ai primi di maggio con dei focolai avvenuti tra i lavoratori precari dei mattatoi e dei raccoglitori di frutta stagionali.
La Spagna è uno dei paesi in Europa con il più alto livello di disuguaglianza sociale, notevolmente aumentata dopo le misure di aggiustamento socio-economico dovute alla precedente crisi iniziata nel 2008. Dovremmo cercare in queste disuguaglianze la genesi de “Spain is different”. Lo si è visto chiaramente quando alla fine di luglio in centri urbani con una alta densità di popolazione e con una forte disgregazione sociale, come sono Barcellona o Madrid, la situazione epidemica ha cominciato ha dettare preoccupazione.
Nel caso della Comunità autonoma di Madrid, che personalmente conosco meglio, le mappe sull’incidenza presentavano un chiaro e classico schema spaziale nord-ovest / sud-est: i quartieri popolari e i centri urbani dell’area metropolitana situati a sud della capitale, mostravano a settembre una incidenza superiore ai 1.000 casi ogni 100.000 abitanti. Le differenze con le zone urbane del nord più ricche, non possono essere attribuite semplicemente al “modus vivendi” dei suoi abitanti, come ha affermato Isabel Ayuso, presidente della Comunità autonoma di Madrid, ma alla maggiore esposizione al coronavirus di queste classi popolari e al loro più alto grado di vulnerabilità (gradiente sociale di obesità, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, ecc.), il che ha comportato una maggiore gravità e mortalità dei casi. La maggiore esposizione la si trova tanto nella sfera domestica (difficoltà nel rispettare l’isolamento domiciliare in abitazioni sovraffollate), come sul posto di lavoro (percentuale molto bassa di telelavoro, uso obbligatorio dei mezzi pubblici di massa nelle ore di punta, lavoro faccia a faccia in occupazioni precarie, “presentismo(a)”, ecc.)
La risposta a questa situazione è stata diversa a seconda delle comunità autonome. Alcune hanno compreso l’origine sociale della diffusione del virus, intervenendo nei quartieri popolari interventi con un approccio comunitario (tracciamento porta a porta, identificazione e supporto ai bisogni di tipo sociale e offerta de alternative al proprio domicilio e al lavoro) che hanno avuto un riscontro positivo. Ma altre, come la Comunità autonoma di Madrid, hanno scelto di confinare i quartieri e le città operaie, limitando i loro contatti con il resto della città, tranne che per motivi di lavoro, studio o assistenza. Contemporaneamente, invece di decidere di investire nel rinforzamento dei servizi di cure primarie o di sanità pubblica di queste aree, hanno scelto la strada del “populismo sanitario”, acquistando ingenti quantità di test PCR o test antigenici, ma smettendo di testare i contatti stretti dei non conviventi.
La percezione della stigmatizzazione di questa strategia è stata sintetizzata nella frase: “Non ci lasciano andare a Madrid (al centro di Madrid) per prenderci una birretta, ma si per servirla (per lavorare nel settore alberghiero nelle zone non confinate)”. La inefficacia di questa strategia si è chiaramente messo in evidenza nel constatare gli importanti livelli di trasmissione comunitaria presenti anche nei quartieri “ricchi” del centro e del nord.
L’ostinazione nel perseguire questa politica assurda e classista, associata a una forte resistenza nel limitare qualsiasi tipo di attività commerciale o di svago, invocando la morte dell’economia (anche se l’eccesso di mortalità, quella morte vera, era già evidente nel mese di settembre), ha costretto il governo spagnolo poco prima dell’inizio del “ponte” il 12 ottobre, a dichiarare un nuovo stato di emergenza esclusivamente per la Comunità di Madrid, con la finalità di evitare la solita fuga precipitosa da Madrid e imporre misure di controllo concordate a livello nazionale.
Concludo sottolineando che le disuguaglianze sociali non hanno soltanto influenzato l’aumento del rischio nei lavoratori precari, ma hanno colpito anche ai gruppi più vulnerabili della società, quelli che hanno perso il lavoro o che si trovavano già in una situazione di esclusione sociale, e ai quali gli aiuti promessi dello stato, stanno arrivando lentamente e in ritardo a causa delle barriere burocratiche (come nel caso del Reddito Minimo Vitale), motivo per cui si sono sviluppate azioni solidaristiche dei gruppi di mutuo soccorso di questi quartieri per sopperire a queste carenze.
Abbiamo bisogno di un po’ di tempo, non soltanto per vedere come si comporta questa seconda ondata, ma per capire l’impatto che tanto il sovraccarico del sistema sanitario, quanto l’aumento delle disuguaglianze sociali avranno sulla salute collettiva dei cittadini spagnoli.
Javier Segura del Pozo, medico di sanità pubblica, Madrid
Traduzione di Maria Josè Caldes, medico di sanità pubblica, Firenze
Nota
a) Presentismo: In Spagna si riferisce al contrario dell’assenteismo. Vale a dire andare a lavoro anche in corso di malattia per timore a perdere il lavoro.