Disturbi mentali e COVID-19

Antonio Lora

C’è una connessione bidirezionale tra disturbi mentali e COVID-19.  Molti studi sono stati dedicati a questo tema, ma di fronte alla crescita dei bisogni ben poco è stato fatto per potenziare i servizi di salute mentale.

Gli effetti devastanti della pandemia da COVID-19 sulla salute mentale della popolazione sono ben descritti in un articolo recentemente  apparso sul British Medical Journal ad opera di  Xie,, Xu e El-Ali (1), ricercatori che operano negli Stati Uniti nel campo della epidemiologia e della public health. Lo studio ha utilizzato vasti database sanitarie per mettere a confronto un campione di circa 160.000 persone che si sono ammalate di COVID durante la prima e la seconda ondata con due campioni di circa 6 milioni di persone ciascuno.  Il primo rappresentato da persone che hanno vissuto la pandemia, ma non si sono ammalate di COVID, il secondo da persone selezionate in un periodo precedente (2018) la pandemia.  Confronti sono stati fatti anche con coloro che si sono ammalati di influenza e sono stati ricoverati per questo.

Le analisi a dodici mesi mostrano che coloro che si sono ammalati di COVID hanno un rischio maggiore di presentare disturbi ansiosi, depressivi e stress correlati  e di utilizzare ansiolitici e antidepressivi. È anche accresciuto il rischio di abuso di sostanze come oppioidi e il rischio di declino neuro-cognitivo. Complessivamente il rischio di malattia mentale è aumentato del 60% in coloro che si sono ammalati di COVID19. Questo equivale a dire che ogni anno su 1000 persone, tra coloro che sono stati ammalati di COVID ci saranno  65 persone in più che soffriranno  di disturbi psichici o riceveranno uno psicofarmaco rispetto a coloro non si sono ammalati. Oltre queste importanti conclusioni, ci sono altri spunti interessanti: i pazienti ammalatisi  di COVID che sono stati ricoverati, e quindi con una gravità maggiore, hanno presentato un rischio ancora maggiore di malattie mentali rispetto a coloro che ammalatisi di COVID non sono stati  ricoverati o rispetto a coloro che negli anni precedenti sono stati ricoverati in ospedale per influenza stagionale o per altre malattie. I risultati di questo lavorano mostrano come le persone che si sono ammalate di COVID19 sono a maggior rischio di malattia mentale nell’anno seguente l’infezione e che il rischio aumenta con la gravità dell’infezione.

Da altre ricerche anche italiane (2) emergono robuste evidenze che le persone con disturbo mentale hanno un rischio maggiore di essere infettate dal COVID-19 e di avere esiti sfavorevoli: nel campione italiano la psicosi è il 6° fattore di rischio per ammalarsi di COVID-19, raddoppiando in questi pazienti il rischio di infezione.  Va quindi considerata la connessione bidirezionale tra disturbi mentali e COVID-19: Da una parte i pazienti  con disturbo mentale (i) hanno maggior rischio di infettarsi e (ii) di sviluppare manifestazioni severe/fatali dell’infezione, dall’altra i pazienti che sperimentano infezione da SARS-CoV-2, ma soprattutto malattia COVID-19, (iii) hanno maggior rischio di sviluppare disturbi mentali successivamente al (e per effetto del) contagio.

A questo mosaico dobbiamo aggiungere un altro pezzo importante: gli effetti della pandemia sulla salute mentale della popolazione non ammalatasi di COVID. La recente revisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (3) definisce alcuni punti fermi: nel primo anno della pandemia si è verificato un incremento della prevalenza di disturbi mentali, in particolare ansia e depressione,  ed in particolare tra il genere femminile, tra i giovani e tra coloro che presentavano già problemi di salute. Le evidenze sull’aumento di pensieri e comportamenti suicidari sono più deboli, tranne che nei giovani, dove è confermato un rischio maggiore di comportamenti suicidari. In ultimo l’OMS analizza l’impatto del COVID sui servizi di salute mentale: durante le ondate della pandemia i servizi territoriali di salute mentale hanno ridotto la loro attività ed in parte hanno sviluppato attività in remoto, anche se sono  presenti alcune criticità che minano lo sviluppo delle attività in remoto (inadeguata infrastruttura di Information Technology, diseguaglianze “digitali” nella popolazione, scarsa dimestichezza da parte di alcune classi di pazienti nell’utilizzo del digitale).

L’articolo di S. Weich (4) sempre  sul BMJ non è solo un interessante  commento all’articolo di Xie e colleghi, ma  affronta anche una questione rilevante per la salute pubblica: in questi due anni il mondo scientifico è stato in grado di produrre una rilevante  quantità di ricerche e studi sull’impatto del COVID19 sulla salute mentale, almeno in termini di pubblicazioni, ma poco è stato fatto per potenziare i servizi di salute mentale  di fronte a questo maggiore carico di disturbi mentali. Usando le parole di Weich “ Guardare indietro a ciò che è successo è probabilmente meno importante che riflettere sulla lezione che abbiamo imparato e  su cosa abbiamo bisogno di fare ora, e su cosa ancora non conosciamo”.

Sulla falsariga di questo commento di Weich, proviamo a sviluppare alcune osservazioni che valgano per la situazione italiana.

Innanzitutto va sottolineato come anche in Italia sia possibile utilizzare i data base sanitari e nello specifico quelli della salute mentale, interconnettendoli tra di loro, per produrre dati di qualità simili a quelli prodotti in questi studi. La quantità e la qualità  di informazioni raccolte dalla Sanità pubblica italiana è una eccellenza a livello europeo, di cui forse non siamo abbastanza consapevoli, nonostante la maggiore attenzione prestata in questi anni all’importanza dell’informazione in sanità.

Le osservazioni di Weich ci portano al cuore del problema: cosa è successo in Italia durante la pandemia per quanto riguarda la salute mentale? Cosa è stato fatto per migliorare l’intervento dei servizi di salute mentale?  Il quadro che abbiamo di fronte ha tinte chiaro-scure: durante la pandemia gli operatori dei servizi hanno continuato ad assistere i pazienti, riducendo alcune attività, per evitare i contagi, e ripristinandole almeno in parte una volta superata l’ondata infettiva. In Lombardia, ad esempio,  dopo lo shock pandemico del marzo 2020 i servizi territoriali hanno ripreso nel 2021 le loro attività, recuperando  i valori di attività del 2019,  anche se permaneva un treatment gap in alcune aree, i trattamenti psicosociali, e per alcune classi di pazienti, quelli con disturbo schizofrenico e quelli che, indipendenti dalla diagnosi, avevano un primo contatto con i servizi nel 2020 (5). Non esiste ancora a livello nazionale  una valutazione dell’incremento del bisogno di salute mentale come conseguenza dell’epidemia. Il progetto europeo RESPOND a cui partecipa Regione Lombardia potrà dare una risposta, utilizzando proprio i database sanitari per valutare come sia cambiata la qualità della cura durante e dopo la pandemia e se vi sia stato un maggiore accesso ai servizi di salute mentale nel periodo seguente.

Al di là dei dati scientifici che permetteranno una analisi più dettagliata dell’impatto del COVID sulla salute mentale in Italia, già da oggi è però necessario affrontare la questione posta da Weich: la capacità di risposta dei servizi di salute mentale italiani davanti  ai bisogni di salute mentale nati dalla pandemia è aumentata?  La risposta è purtroppo pessimistica, i servizi sono più fragili oggi che prima della pandemia, la loro capacità di risposta è diminuita per alcune ragioni che proverò a sintetizzare. I Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) italiani stanno vivendo una grave crisi per la scarsità di risorse umane (in particolare psichiatri), acuitasi negli ultimi due anni in parallelo alla pandemia,  e frutto non solo della mancanza di programmazione nel campo degli specialisti, ma anche dei progressivi tagli del personale che sono stati effettuati negli ultimi quindici anni. Il risultato è la  carenza di psichiatri nei servizi situati fuori dalle grandi città e questo si ripercuote in maniera drammatica nella capacità di risposta ai bisogni non solo dei nuovi pazienti, ma anche di quelli già in carico.  A questo si deve aggiungere  la mancanza di un pensiero innovativo nei DSM per quanto riguarda il trattamento dei disturbi emotivi comuni (disturbi ansiosi e depressivi), i disturbi più frequentemente originati  dalla pandemia. I servizi italiani, nati dalla chiusura dei manicomi e caratterizzati da un’expertise nel trattamento dei disturbi mentali gravi sul territorio (psicosi, gravi depressioni, disturbi di personalità) non hanno mai sviluppato una uguale expertise nel trattamento dei disturbi emotivi comuni.  Ripropongono le modalità di trattamento dei primi, utilizzano un modello prevalentemente medico-centrico ed incentrato sul trattamento farmacologico, mentre è ridotta la capacità di erogare trattamenti psicosociali. Dal punto di vista del personale, è ridotta la quota di psicologi e vi è scarsa consapevolezza della necessità di strutturare un processo di task-shifting[1] verso altre figure professionali al fine di incrementare l’erogazione di trattamenti psicosociali.   Inoltre, tranne poche eccezioni, i servizi non hanno mai strutturato un rapporto organico con la medicina generale. Lo stesso sviluppo della telepsichiatria e del teleconsulto rischia di essere un modello unicamente messo in campo per fare fronte alla drammaticità della pandemia, senza una implementazione strutturata nella organizzazione dei servizi  che guardi al futuro.

Drammatica carenza  di personale,  ridotta capacità innovativa nel trattamento dei disturbi emotivi comuni e scarsa integrazione con la medicina generale rendono i Dipartimenti di Salute Mentale italiani poco in grado in questo momento di fare fronte ai nuovi bisogni di salute mentale creati dal COVID.

E’ da sperare che ci sia consapevolezza non solo tra gli operatori, ma anche tra gli amministratori ed i politici della gravità della situazione in cui versano i DSM  e siano messi in atto interventi  per affrontare queste difficoltà. Al tempo stesso però deve esserci maggiore capacità innovativa nei DSM non solo dal punto di vista delle tecniche, ma anche nell’abbandono di un modello psichiatra-centrico, che non è più sostenibile in termini di risorse ed è meno efficace di fronte ai nuovi bisogni sorti durante la pandemia.

Sicuramente il Piano Nazionale di Recupero e Resilienza (PNRR) può rappresentare un fattore di  sviluppo anche per i DSM. L’implementazione  della  telemedicina e la attivazione delle Case di Comunità può favorire il rapporto con la medicina generale e quindi il trattamento dei disturbi emotivi comuni, ma solo ad alcune condizioni. Da un lato  i DSM devono essere supportati per  recuperare una loro capacità operativa in termini di risorse umane, dall’altro gli stessi devono però  innovare la loro “cassetta degli attrezzi” per affrontare il carico dei disturbi emotivi comuni  originati dalla pandemia.

Antonio Lora, Direttore Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze ASST Lecco

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Yan Xie, Evan Xu,Ziyad Al-Aly Risks of mental health outcomes in people with covid-19: cohort study BMJ 2022;376:e068993 | doi: 10.1136/bmj-2021-068993
  2. Corrao G, Rea F, Carle F, et al. Stratification of the risk of developing severe or lethal Covid-19 using a new score from a large Italian population: a population-based cohort study. BMJ Open 2021;11:e053281. doi:10.1136/bmjopen-2021-053281
  3. World health Organization Mental Health and COVID-19: Early evidence of the pandemic’s impact Scientific brief (2 March 2022) : https://www.who.int/publications/i/item/WHO-2019-nCoV-Sci_Brief-Mental_health-2022.1
  4. Weich Mental health after covid-19. The risks are clear, it’s now time to learn and respond BMJ 2022;376:o326 | doi: 10.1136/bmj.o326
  5. Corrao G, Cantarutti A, Monzio Compagnoni M, Franchi M, Rea F. Change in healthcare during Covid-19 pandemic was assessed through observational designs. J Clin Epidemiol. 2022 Feb;142:45-53

[1] “La ridistribuzione razionale dei compiti all’interno di un gruppo di lavoro sanitario grazie alla quale competenze tecniche specifiche sono spostate da operatori sanitari a qualificazione formale più elevata ad altri a qualificazione formale meno elevata, ma specificamente formati e certificati con l’obiettivo di raggiungere un utilizzo più efficiente delle risorse disponibili” (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2008)

Un commento

  1. L’intervento è del tutto condivisibile, ma mostra, a mio parere, tre punti di debolezza importanti:
    1) la scotomizzazione della gravissima povertà di risorse, a qualsiasi livello del percorso di cura, dei servizi di Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, che hanno gli stessi volumi di utenza dei Servizi per gli adulti con staff che oscillano tra il 25% e il 50% di quelli di questi ultimi (sommando tutte le figure professionali) e non dispongono – nella maggior parte delle Regioni -dei livelli di cura più complessi;
    2) la povertà di risorse umane in Salute Mentale non è certo riferibile alla sola linea professionale dei medici specialisti in psichiatria (che nel giro di2 o 3 anni sarà risolvibile grazie al potenziamento sei posti di specializzazione) e in neuropsichiatria infantile; ancora più grave è la carenza di psicologi psicoterapeuti, che dovrebbero essere almeno in numero equivalente ai medici, e dei professionisti sanitari della riabilitazione, ormai quasi impossibili da reclutare per la politica del numero chiuso;
    3) le pratiche preventive basate su evidenze scientifiche sono ancora più deboli delle risposte cliniche.

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